Il termine crisi deriva dal verbo greco KRINO che significa “separo”: esso si riferiva, nell’antichità, alla trebbiatura, cioè all’attività conclusiva nella raccolta del grano, consistente nella separazione della granella del frumento dalla paglia e dalla pula (scarto).

Successivamente, il termine crisi trovò spazio in ambito medico, inteso sia come il rapido mutamento delle condizioni di una malattia verso un miglioramento o un peggioramento che come lo sforzo del corpo che la combatte.

È da notare che il concetto di sforzo, inteso come impiego di forze per raggiungere un risultato, o l’atto del separare, che comporta la trasformazione da qualcosa di unito a qualcosa di diverso, contengono entrambi l’idea di evoluzione o cambiamento.

Il cambiamento, tuttavia, per quanto fruttuoso possa essere, costringe di fatto a una scelta: il passaggio ad una condizione diversa e nuova implica un taglio, una separazione da ciò che c’era in precedenza e, di conseguenza, una rinuncia.

Cambiare significa anche rinunciare e questo ci può spaventare. Non a caso, infatti, tale parola viene oggi utilizzata prevalentemente con accezione negativa: con “crisi” s’intende spesso un momento di disagio, personale o collettivo (es. crisi di pianto, crisi di nervi, crisi d’identità, essere in crisi, crisi economica o sociale, etc.).

Risalire alla vera natura di questa parola può però aiutare a intenderla in modo più positivo o, quantomeno, neutrale: quando un individuo, un insieme di individui o un sistema si evolve,è costretto a lasciare indietro parti di sé per far spazio a quelle nuove, ma non per questo deve sentirsi peggiore o a disagio. Il cambiamento, per quanto difficile, è anche un momento importante (e necessario) di coraggio, rinascita, rinnovamento. Occorre rimanere lucidi, non farsi prendere dalla malinconia ed essere pronti ad accogliere con entusiasmo le scoperte che su di noi e sugli altri possiamo sempre fare

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